OLIMPIADI AZIENDALI E QUESITI ESISTENZIALI

I dipendenti pubblici hanno (ahinoi) avuto recentemente a che fare con la famigerata piattaforma “Syllabus”, la piattaforma di formazione governativa “dedicata al capitale umano delle PA” che si è posta l’ambizioso obiettivo di “sviluppare le competenze e rafforzare le amministrazioni” come annuncia fastosamente la home page del sito internet dedicato (https://www.syllabus.gov.it/portale/web/syllabus ). Finanziata da fondi europei, è divenuta tristemente nota nel nostro ente come quella piattaforma su cui seguire “i corsi di corsa” vista l’obbligatorietà del superamento degli stessi, ed il poco tempo a disposizione per poterli svolgere. Aldilà della disorganizzazione organizzativa (in parte nazionale, in parte locale) che ha creato non pochi disagi ai dipendenti, la piattaforma in questione è recentemente tornata alla ribalta per via dell’iniziativa Ministeriale denominata “OLIMPIADI SYLLABUS” ovvero una “iniziativa premiale ideata dal Dipartimento della Funzione Pubblica per favorire e incoraggiare la crescita formativa e culturale dei dipendenti della Pubblica Amministrazione” con tanto di Regolamento Ministeriale (il link per leggere il testo completo lo trovate qui https://www.funzionepubblica.gov.it/sites/funzionepubblica.gov.it/files/Regolamento_olimpiadi_Syllabus.pdf) che disciplina modalità di espletamento delle prove, assegnazioni dei punteggi e persino i premi ed i cotillon, con “una medaglia di color d’oro, d’argento e di bronzo” per i primi 3 classificati, i quali avranno persino l’onore di essere “premiati dal Ministro per la pubblica amministrazione.” (art. 5 comma 1-3 del Regolamento).
Proprio lui, il Ministro Zangrillo, storico Dirigente d’azienda nel settore Risorse Umane, non può non ricordare il Ragioner Fonelli, malefico “Mega Direttore Naturale del Personale” della saga Fantozziana, il quale coartava sadicamente i dipendenti a partecipare alle olimpiadi aziendali per il proprio sollazzo.
Aldilà delle similitudini tragicomiche tra le due vicende, situazioni come queste ci fanno sorgere delle domande, la prima delle quali è cosa siamo disposti a fare pur di lavorare? una domanda che, condividendo le riflessioni esposte recentemente dallo scrittore e drammaturgo Stefano Massini, ci appare agghiacciante: ad esempio, se sei un giovane laureato ad inizio carriera sei disposto a sgobbare da mattina a sera mettendo le tue competenze, il tuo impegno le tue risorse sul lavoro che poi firmano altri? Accetti che il tuo lavoro venga usato, che non ti venga riconosciuto, spesso non (o mal) pagato? Se sei un lavoratore che il posto lo rischia, che cosa sei disposto a fare o sentirti dire pur di mantenere il posto di lavoro? Ancora, se sei una donna lavoratrice, cosa sei disposta a sentirti dire e a sopportare quotidianamente pur di lavorare? Infine se sei un operaio, quanto sei disposto a mettere la tua vita in pericolo pur di lavorare, in un paese in cui le morti sul lavoro sono più di 1.000 all’ anno?
La seconda domanda che ci sorge spontanea, come conseguenza diretta della prima è: cosa è diventato oggi il lavoro in Italia? il lavoro oggi in Italia è verosimilmente diventato un prodotto, un prodotto svilito, svuotato di ogni sua dignità, di ogni sua forza morale, culturale e sociale. L’unica caratteristica che pare non abbia perso è l’utilità: l’unica utilità del lavoro attualmente sembra essere il raggiungimento dell’obiettivo, del “risultato finale” calato dall’alto sulla testa del sottoposto: poco importa se l’obiettivo non è condiviso, se è ai limiti della legittimità o della opportunità (ed in tal caso guai a farlo notare, il rischio è quello di passare per “poco disponibile”), se i meriti vanno altrove, o se mette in pericolo la nostra incolumità: chi ne esce con le ossa malconce è naturalmente sempre il lavoratore, impoverito economicamente e moralmente, avvilito professionalmente, condannato ad una competizione che tende a sfociare in una “lotta tra poveri” (alla faccia delle Olimpiadi e di de Coubertin), la quale finisce sempre prevedibilmente per premiare chi esegue senza sollevare alcuna obiezione, chi considera attività ordinaria svolgere straordinari, chi decide volutamente di ignorare i propri diritti, chi accetta passivamente che la competizione prenda il posto della collaborazione, insomma: tutti coloro che oltre ad essere disposti a fare di tutto pur di lavorare, scelgono di tollerare di tutto pur di lavorare.
Questo cortocircuito del sistema lavoro in Italia, che avanza incontrastato da almeno mezzo secolo, ha già prodotto effetti devastanti: la selezione della classe dirigente del nostro Paese risente inevitabilmente della sottocultura lavorativa che premia la disponibilità stacanovista a scapito della professionalità, e di una cultura del lavoro così tanto degradata al punto di apparire inesistente. A farne le spese l’interesse generale ed il progresso.
Come accade dall’alba dei tempi, l’unica cosa che l’uomo può fare quando si sente smarrito, è alzare gli occhi al cielo per cercare la stella polare che gli indichi la via, nel nostro caso rappresentata dalla Costituzione, la quale, pone il lavoro a fondamento della Repubblica (articolo 1), lo inquadra come attività finalizzata a concorrere al “progresso della società” (articolo 4), cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori (articolo 35), assicura il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro al fine di assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa (articolo 36). A 76 anni dalla sua entrata in vigore, la nostra stella polare appare tristemente più distante e sfocata che mai.